Recensione a Mario Fubini «Vittorio Alfieri. Il pensiero, la tragedia» (1938)

Recensione a Mario Fubini,Vittorio Alfieri. Il pensiero, la tragedia (Firenze, Sansoni, 1937), «Letteratura», a. II, n. 3, Firenze, luglio 1938, pp. 166-168.

Recensione a Mario Fubini «Vittorio Alfieri. Il pensiero, la tragedia»

La critica alfieriana, dopo il periodo positivistico di mediocri convalidazioni dei dati biografici, ha posto ormai l’esigenza di un’esatta determinazione del tono di quella poesia, del linguaggio attraverso cui l’Alfieri vive i suoi problemi di conoscenza vitale e non tanto della concretezza della sua drammaticità quanto proprio del suo atteggiamento nella realtà poetica. Ciò significa determinare la naturalità del romanticismo alfieriano e la forma cui giunge il suo entusiasmo. Accertare la radice del suo entusiasmo ed il suo farsi discorso poetico trascende cosí sensatamente i canoni teatrali per ascoltare l’onda lirica che investe e travolge le situazioni teatralmente escogitate. Ora ci sembra che il lavoro del Fubini (cui ci avevano già preparato il saggio su «Pan» e gli articoli alfieriani degli ultimi anni), molto buono non solo nella sua bruta concettualità ma nel suo tono vitale, si riduca poi ad una lettura del teatro e ad una discussione attenta con la critica precedente, puntualmente accettata e rifiutata. Resta un distacco fra gli appigli ottimi del capitolo sul pensiero e la esposizione critica delle tragedie. E qui va con chiarezza notato un difetto sempre avvertito nella maniera critica del Fubini: la minuta giustapposizione di tante esercitazioni sulle singole opere e sulle singole poesie (cosí nel Foscolo) senza la capacità di risalire né ad una storia né ad un’assoluta definizione della poesia studiata. È questa, ad ogni modo, la sua stessa intenzione riassuntiva e sistematica quale ci è chiarita nella prefazione: «Questo libro non vuol presentare delle scoperte nel campo della critica alfieriana» poiché la visione odierna dell’Alfieri è tutta sicuramente trasportata in campo estetico. Compito del Fubini è «mettere in luce quella comune opinione, liberandola dalle formule paradossali e unilaterali che la offuscano, evitando, in un’opera che coordini i risultati degli studiosi precedenti, gli errori di una visione parziale, come quella, per citare un esempio solo, che considera la politica dell’Alfieri come qualcosa di affatto secondario». E tale è il tono analitico, millimetricamente accurato di tutta la seconda parte del libro.

Un primo capitolo prospetta la natura pessimistica dell’Alfieri, natura di sofferenza condotta ad un sensismo di scontento («Veder, toccar, udir, gustar, sentire / tanto e non piú ne diè natura avara») e per contrapposto ad una concezione platonica e beatificante della poesia, che «l’uom del mortal carcere sprigiona» (il F. rileva con molta semplicità e senza sfoggio frasi e versi illuminanti che indicano una presenza al critico sempre e naturalmente viva dell’opera alfieriana). Pessimismo personalistico, ispirato da un bisogno della grandezza quasi fisiologico (si noti una volta per sempre l’effetto della musica sull’Alfieri in contrasto con l’effetto paradisiaco che ne riportava il Leopardi), piú attivistica ed esteriore della sete di aurea vita energica sognata dal Leopardi: avvicinamento questo che va chiarito soprattutto in sede di civiltà romantica e su cui il F. insiste troppo, avendo l’aspirazione leopardiana un carattere fondamentale di ricerca dell’assoluto che manca all’Alfieri, al suo bisogno di forti sensazioni: «L’uomo vive d’amore, l’amore lo fa Dio, ché Dio chiam’io l’uomo vivissimamente sentente». Posizione titanica fra le piú chiare (il Cerny, se avesse superato, nel suo Essai sur le titanisme, i duri limiti cronologici, avrebbe trovato in lui finalmente un rappresentante italiano dell’atteggiamento romantico di ribellione e di grandezza appassionata), resa concreta dal suggerimento machiavellico del «mal buono», dell’energia antisentimentale e contraria al facile umanitarismo settecentesco.

Questo culto dell’energia e dell’aristocrazia spirituale (aristocratica in tal senso è la tradizione liberale italiana) spiega il suo atteggiamento politico, proiezione del suo essenziale stato d’animo eroico, sanamente legato alle idee di libertà e di dignità umana, di feroce lotta contro la tirannide, sia dittatoriale (l’esperienza classica) sia assolutistica (l’esperienza del suo paese) sia democratica (l’esperienza della rivoluzione francese). Il F. in questo capitolo ha saputo vedere la connessione intima e non letteraria fra l’Alfieri scrittore, l’Alfieri uomo e l’Alfieri politico e, se qualche volta ha evidentemente equivocato sull’importanza di alcuni documenti, come del progetto del Dizionario militare, si è sempre mantenuto in un’esattezza utilissima.

Questa connessione si doveva poi porre come inscindibile unità e piú si doveva sentire il carattere unico, creativo, anche esteriormente originale, della lingua alfieriana, lingua che non si digruma, che coagula ogni accento, che spezza ogni affabilità che non sia serietà elementare, supremamente creativa e non socievole, inattaccabile se non alla sua radice di energia antistorica, che non sa essere passabilmente letteraria nei suoi momenti peggiori (gli inni di David) perché incurante di una tradizione che non sia legame fra la concezione eroica e l’Italia eroica che ne derivava.

Venendo cosí a parlare del poeta in poche paginette di scarso valore, il F. non chiarisce questo tono poetico, cui nulla aggiunge un’illusoria natura di compenso (dato che il «fare» umano è troppo poco «fare» di fronte all’ampiezza del sogno e quindi non solo per colpa dei tempi che hanno sempre la funzione di rappresentare l’inadeguatezza della realtà al sogno intimo), né risolve internamente alla poesia il problema della vocazione alla tragedia, ma si contenta di una spiegazione di ambiente.

La equilibrata presentazione delle singole tragedie lascia male individuare una linea di svolgimento entro il limite monografico ed è in realtà un tentativo di equilibrio fra le formule estreme e il risultato di una discussione con tutti i critici delle singole tragedie: critici che a volte non varrebbe la pena di discutere e la cui eccessiva presenza turba il piano svolgimento di una originale concezione critica. Fra tanto minute contestazioni circa la giustezza di questa o quella battuta, rare sono le frasi che veramente ci interessino (alcuni accenni a suggestioni metastasiane nelle parlate di Carlo ed Isabella, il rilievo dato alla forte prosa francese dell’abbozzo del Carlo I).

Importante è dunque invece la presenza della critica del Momigliano che è un po’ l’idolo polemico (si vanta l’Oreste e si qualifica meccanico l’Agamennone) e insieme il presupposto di sensibilità di queste descrizioni di tragedie: è cosí l’atmosfera estetico-psicologica suscitata dalle pagine di introduzione alla Mirra e al Saul del Momigliano che si agita, tradotta debolmente, nei momenti migliori. Notiamo in fine qualche utile osservazione sulla Mirra e sul Saul: la giustificazione dell’ambiente borghese della Mirra: «la funzione di quell’ambiente borghese che costituisce come uno sfondo neutro, atto a far risaltare quell’intimo, segreto orrore, e l’apparente prosaicità del discorso che in ogni suo accento ci costringe, come mai accadeva nell’Alfieri, a cercare, al di là delle parole, una realtà piú profonda, e tutto converge, quale sia l’interlocutore, verso quella tragedia che ferve implacata nel chiuso animo della protagonista»; o un tentativo di motivare lo scarso approfondimento dei personaggi secondari in quanto sono «coro» (ma ciò non basta a salvare le parlate di Pereo) e la certezza che in Mirra non v’è schema di passione e dovere, ma qualcosa di piú profondo e prepsicologico.

Al Saul sono dedicate molte pagine e un’interpretazione che insiste sul carattere della parola-azione di Saul e sul carattere di suggestione che le parole in se stesse celano: «Non le immagini in se stesse come in altre battute della tragedia, ci colpiscono (potevano essere anche di un mediocre poeta), quanto quello stato di paurosa solitudine che esse suggeriscono».